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Concorsi pubblici: non varrà più solo il voto di laurea, ma anche l’università

Concorsi pubblici: non varrà più solo il voto di laurea, ma anche l’università

Nei concorsi pubblici per le PA a fare la differenza non sarà più solo il voto di laurea, ma potrà contare anche l’università. Questo l’emendamento approvato alla Camera. Polemiche.

Nel disegno di legge della Pubblica Amministrazione in discussione in commissione in seconda lettura alla Camera ha trovato posto anche l’emendamento, firmato dal deputato PD Marco Meloni, che parla di «superamento del mero voto minimo di laurea quale requisito per l’accesso» e «possibilità di valutarlo in rapporto ai fattori inerenti all’istituzione che lo ha assegnato».

A detta del presentatore, la proposta nasce dall’idea di regolare l’accesso ai concorsi non più solo su fattori puramente numerici, ma anche su fattori inerenti la qualità e le caratteristiche dell’ateneo che ha rilasciato il titolo.

Insomma, non conterà più con che voto ci si laurea, ma il dove. E questo “dove” rischia di diventare fattore determinante, precludendo a tanti laureati di partecipare ai concorsi indetti dalla Pubblica Amministrazione.

Non solo, si rischia pure di condizionare ab origine le scelte dei maturandi, spinti a frequentare atenei più larghi nelle valutazioni ma meno selettivi, puntando insomma al voto più alto, a tutto discapito di quelli più performanti ma “di braccino corto” nell’assegnazione dei voti.

Secondo Meloni, «In realtà la valutazione (nel mondo universitario) esiste, ed è quella dell’Anvur, ma non so se il governo la userà. L’importante – sottolinea l’on.Pd – è che si introducano elementi che premino davvero le competenze e la preparazione. Ora vedremo come il governo declinerà questo proposito nel decreto legislativo che seguirà alla delega».

L’emendamento però ha già alzato un polverone di polemiche, provenienti soprattutto dal mondo universitario, per il quale nonostante le rassicurazioni del parlamentare e del Governo la valutazione non è stata ancora standardizzata con efficacia.

Le prime a ribellarsi sono le associazioni di studenti: l’Unione degli Universitari ad esempio parla di «previsione normativa gravissima perché determinerà per la prima volta una differenziazione dei titoli di laurea tra le diverse università pubbliche».

«Ad oggi la strada più probabile è che si prendano in considerazione i parametri dell’ANVUR, già utilizzati per la quota premiale del finanziamento degli atenei- nota il presidente Gianluca Scuccimarra – ma questi indicatori, oltre ad essere basati per oltre l’80% sulla valutazione di attività di ricerca, dunque completamenti scollegati dalla didattica degli studenti, sono anche fortemente contestati rispetto all’effettiva capacità di “misurare” la qualità».

Gli fa eco Link coordinamento universitario, secondo cui la norma giudicata classista è «una variante dell’abolizione del valore legale del titolo di studio e rappresenta un ulteriore attacco agli studenti e a quegli atenei, soprattutto del sud, già oggi fortemente penalizzati per via delle scarsissime risorse che ricevono dal Fondo di Finanziamento Ordinario».

Fortemente perplesso anche il rettore dell’Università di Bergamo e presidente della Conferenza dei Rettori (Crui) Stefano Paleari: «Non sono un giurista ma un ingegnere, però dico: se esiste il valore legale del titolo di studio la laurea deve pesare allo stesso modo. Oppure hanno pensato di intervenire abolendo il valore legale del titolo di studio?».

Governo e Parlamento rischiano un nuovo strappo col mondo dell’università, dopo le polemiche ancora roventi con l’universo della scuola.

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