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Quando la filiera è sporca: arriva un’indagine sull’agroalimentare italiano

Quando la filiera è sporca: arriva un’indagine sull’agroalimentare italiano

Nell’anno di Expo arriva un’indagine sullo sfruttamento umano in agricoltura e sulla poca trasparenza della filiera agroalimentare dal campo allo scaffale.

A realizzarla e pubblicarla le associazioni Terra! Onlus e daSud e il sito Terrelibere, che hanno lavorato alacremente per ricostruire non solo il già noto traffico degli invisibili costretti a lavorare in condizioni disumane nei campi e nei frutteti italiane, ma anche il viaggio compiuto dai prodotti a partire dalla terra fino alla tavola.

Presentata due giorni fa alla Camera l’indagine #Filierasporca prova a ricostruire tutti i passaggi, dal campo allo scaffale, e a metterne in luce le falle per dimostrare che non si può “nutrire il pianeta” sfruttando il lavoro e l’agricoltura.

Esploso in tutta la sua veemenza qualche anno fa con la rivolta dei raccoglitori di arance di Rosarno in Calabria, lo sfruttamento della manodopera a basso costo e con diritti insistenti nelle campagne della nostra penisola è ben lontano dall’essere risolto e continua a contare i soliti problemi cronici.

Stupri e violenze sulle donne, capolarato, ghettizzazioni, lavoro minorile, bidonville e alloggi di fortuna o tendopoli: queste le tanti innumerevoli problematiche vissute dai nuovi schiavi del terzo millennio:

Si legge nel rapporto: «Quanti sono i consumatori che sarebbero disposti a comprare un’arancia, un pomodoro, una bottiglia di vino, un succo, una conserva, sapendo che vengono dallo sfruttamento e dalla schiavitù? Probabilmente nessuno. Ma nessuno al momento è in grado di sapere se quello che sta mangiando è frutto di questo sfruttamento, se è sporco».

L’obiettivo fondamentale indicato dalle associazioni è rendere il più possibile trasparente la filiera, ad esempio «fare in modo che le singole imprese abbiano l’obbligo di rendere trasparenti i fornitori dell’intera filiera attraverso l’istituzione di un albo pubblico».

I passaggi tra i vari stadi della filiera nell’agroalimentare italiano continuano infatti a essere poco chiari; scarse le informazioni, o del tutto nulle. Opache le etichette che si riferiscono, ad esempio, al pomodoro del Tavoliere di Puglia o all’arancia calabrese.

Le associazioni hanno portato come situazione esemplare il viaggio di un kg di arance, seguito da Antonello Mangano di Terrelibere.org: rivendute per esempio a 2.10 euro in supermercato di Roma, di quella cifra solo 0,03/0,06 euro arrivano al bracciante agricolo.

E lo stesso kg di arance partito dallo stesso luogo costa appena 65 cent allo storico mercato catanese della Pescheria e 1,33 euro al supermercato nel centro etneo: praticamente il doppio.

Dov’è allora il problema? Ci sono troppi intermediari, un trasporto inefficiente, un lucro pazzesco da parte di chi resta spesso attore inattivo.

Antonello Mangano spiega: «Il cuore della filiera è un ceto di intermediari che accumula ricchezza, organizza le raccolte usando i caporali, determina il prezzo. Impoverisce i piccoli produttori e acquista i loro terreni. Causa la povertà dei migranti e nega un’accoglienza dignitosa». Eccoli, i veri “invisibili” che i media spesso dimenticano di raccontare.

Eppure gli autori dello studio sostengono che una soluzione possibile, e anzi doverosa, c’è già: bisogna «valorizzare il patrimonio agricolo di questo Paese come opportunità per i giovani e per un’agricoltura sana e sostenibile, dove la filiera corta, il rapporto tra campagna e città diventano elementi principali di un nuovo modello di agricoltura. Un modello in cui lo Stato, sia esso amministrazione comunale o nazionale, valorizza un patrimonio comune, sostiene i giovani e produce cibo di qualità».

In realtà, com’è evidente, l’agricoltura italiana si sta dirigendo – almeno a livello generale – «verso un modello in cui da una parte si vende il patrimonio pubblico fingendo che sia un incentivo per i giovani in agricoltura, dall’altra si valorizza il modello del cibo spazzatura, della grande distribuzione, dove i piccoli contadini spariscono lasciando spazio alla monocultura».

Qualcosa inizia comunque a muoversi; è necessario però un ulteriore scatto in avanti per promuovere un’agricoltura sana, sostenibile ed equa anche dal punto di vista dei diritti umani.

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